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ALBERTO BURRI
Opere dal 1949 al 1994
FONDAZIONE MAGNANI ROCCA
Mamiano di Traversetolo, Parma,
fino al 2 dicembre 2007
testo pubblicato su ART JOURNAL
sett-ott. 2007
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Rosso plastica, 1962 |
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Sacco, 1954
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Catrame, 1949 |
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Alberto Burri. Un sacco bello
Le ragioni dell’antologica che la Fondazione Magnani Rocca dedica ad Alberto
Burri partono da lontano, per l’esattezza dall’aprile del 1960, quando Luigi
Magnani con lungimirante intuito acquistò un “sacco” dell’artista di Città di
Castello. Per l’esattezza l’opera è il “Sacco” del 1954 che, insieme ad una
piccola “Combustione” donata dall’autore al suo nuovo collezionista, oggi fa
parte della permanente della Fondazione, ed è l’inizio da cui si dipana il
percorso della grande mostra “Alberto Burri. Opere dal 1949 al 1994. La misura
dell’equilibrio”, in corso fino al 2 dicembre.
Cretto nero e oro, 1994 |
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Quali riflessioni portarono Magnani all’acquisto di una delle opere di rilievo
degli anni cinquanta di Burri, che proprio in quel 1960 avrebbe avuto l’onore di
una sala personale alla XXX Biennale di Venezia, e del quale aveva scritto con
entusiasmo anche Francesco Arcangeli, non è difficile da capire. Certo per un
occhio come il suo, esperto nel scegliere opere di raffinato equilibrio formale,
proprio quel “Sacco”, con la sua materia povera e lacerata, ma sublimata e
ricomposta nella dimensione dell’arte, doveva emanare un’emozione estetica
misteriosa e perdurante, senza soluzione, come un interrogativo privo di
risposta. E’ la stessa domanda che aleggia davanti al precipizio visivo creato
dall’intero panorama dell’opera di Burri, che oggi mantiene inalterato il potere
di porre l’uomo a tu per tu con i silenzi e ai segreti della materia. Lungo il
percorso che si snoda nelle eleganti sale della villa di Mamiano si dimostra
ancora una volta ciò che il maestro diceva, “che il primo quadro è uguale
all’ultimo”, ma anche che in mezzo passa un’energia che tocca e salva, che
spacca e rivela, che brucia e abbraccia come un bianco sudario o come la coltre
di una notte senza luce. L’antologica, curata da Bruno Corà, è una sequenza di
straordinaria intensità, una sessantina di opere scelte con la supervisione
della Fondazione Palazzo Albizzini “Collezione Burri” di Città di Castello; sono
rappresentati tutti i cicli più famosi, dalle prime ancora sperimentali prove
della fine degli anni quaranta agli ultimi cretti, eseguiti poco prima della
morte, avvenuta a Nizza nel 1995.
Nell’arte di Burri tutto avviene sulla superficie, che si riveste, si stratifica
e prende corpo nell’impasto delle sostanze che l’artista privilegiava, dapprima
pietra pomice, sabbia, olio, legno, ferro, tela di sacco, tutte materie umili
che diventano risplendenti, soprattutto nei contrasti con i rossi violentissimi;
più tardi compaiono le plastiche, l’impasto di caolino e vinavil dei “cretti”, i
pannelli lignei dei “cellotex”… ovunque ritmi replicati e sempre diversi, una
pelle pittorica che rifiuta ogni quiete, che sanguina, esplode, s’incendia, si
crepa in distruzioni controllate che creano inattesi equilibri, un sentire
carnale e doloroso, che talora si placa in una contemplazione quasi mistica del
nulla.
Una
mostra che non dà risposte perché la vera arte non ne dà, ma che rinnova lo
spettacolo di quell’inconoscibile che Alberto Burri ha accarezzato con la magia
di un alchimista, e con la compassione di un medico (quale lui era) che ha
trasformato in una strana bellezza l’eterna agonia dell’umanità e della terra.
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