Daniela Bellotti    "Antologia di Scritti sull'Arte"                                                                                                     Approfondimenti

L'Immagine femminile

Omaggio alla donna nel XXI secolo

 

mostra e volume a cura di

Daniela Bellotti ed Estemio Serri

 

Galleria Cinquantasei, Bologna

21 novembre 2009 - 20 febbraio 2010

 

La figura femminile dal XIX secolo a oggi


Testo di Daniela Bellotti, dal catalogo della mostra

Corpi femminili, sguardi maschili
Un progetto espositivo che affronti un tema così vasto come l’evoluzione della figura femminile nell’arte dalla metà del XIX secolo al contemporaneo, non può che essere un piccolo apporto ad un grande capitolo della nostra cultura e un omaggio alle donne di oggi. A loro questa mostra è dedicata.
Lo studio dell’immagine socio-culturale della donna e la sua rappresentazione è un argomento che necessita approfondimenti interdisciplinari. A fianco degli storici, sono i sociologi e gli studiosi di modelli della comunicazione a tracciare le teorie più attuali, soprattutto in una direzione che tende a evidenziare come nella figura femminile si riflettano il sistema sociale e il ruolo riservato alla donna, in costante polarità con l’universo maschile. Come archetipo e concetto astratto primordiale, la figura femminile è uno dei primi segni tracciati da mani umane, le più antiche statuine con caratteristiche che esaltano gli attributi legati alla fertilità risalgono al paleolitico e dimostrano che la necessità di costruire un “idolo” di forma femminile ha accompagnato i primi passi dell’evoluzione umana. Da allora la trasposizione in effigie della donna ha caratterizzato ogni periodo storico, concentrando nella sua definizione segnali altamente rappresentativi sia del pensiero laico che di quello religioso di ogni tempo. Dea e madonna, madre e regina, amante e oggetto di piacere, nuda o in vesti codificate dalla moda e dal decoro della raffigurazione… in ognuno di questi molteplici aspetti essa ha dato corpo a canoni di bellezza, seducenti riflessi di armonie e piaceri terreni e ultraterreni. Si deve pertanto riconoscere che, dipinte e scolpite, immagini femminili hanno accompagnato come numi tutelari tutte le fasi della nostra civiltà e proprio la costanza e la ricchezza della loro presenza identifica la complessità del pensiero occidentale sul fronte della rappresentazione del “femminile”. Si evidenzia tuttavia che in questa vasta fenomenologia, che oscilla costantemente tra sacro e profano, come tra regole e trasgressioni, si rispecchiano con la lucidità di un raffinato strumento dimostrativo, concetti e teorie alla cui elaborazione per molti secoli le donne sono rimaste escluse. In modo pressoché assoluto l’uomo-artista ha infatti esercitato il possesso del soggetto-donna, e con lui la committenza che ha richiesto e collezionato le opere col diritto di esibirle, poiché entrambi detengono storicamente il potere simbolico che si esprime attraverso l’immagine. Tuttavia, nell’invenzione stessa delle forme “astratte e simboliche” della femminilità, l’arte rivela e implicitamente riconosce il potere stesso della donna, ne esalta la sua misteriosa sintonia con i ritmi naturali e con la rigenerazione stessa della vita. Fondamentale resta l’aspetto più segreto dell’ispirazione, da cui nasce il gesto dell’artista che esprime la donna in una dimensione culturale, in quell’altrove che sopravvive oltre i limiti della vicenda umana, dove si perpetua l’esperienza della fascinazione in cui si è replicato per secoli il dualismo uomo-artista / donna-musa. E se una lettura femminista ha additato questo modello di rapporto tra i sessi come esemplare del ruolo subordinato della donna nella storia, corre l’obbligo di non sottovalutare l’intelligenza e l’influenza delle donne e riconoscere la loro partecipazione “attiva” alla definizione della loro immagine, allo stile del loro apparire, nonché alla trasmissione di generazione in generazione di valori complementari e alternativi, sebbene dalle nicchie di potere a loro riservate. La tensione verso il sublime e la valorizzazione della donna si evidenziano con l’età Romantica, che porta a estreme conseguenze la centralità del rapporto amoroso esaltandolo in una dimensione universale e teorizzando la perdita dell’armonia a causa delle imposizioni sociali; nell’arte e nella letteratura la donna diviene punto di contatto con le forze primigenie della natura e i suoi misteri. Nell’anno 1900 con la pubblicazione de “L’interpretazione dei sogni” Sigmund Freud pone le basi per una visione rivoluzionaria; il suo sistema psicanalitico, che ruota attorno alla decodifica delle immagini interiori e al loro manifestarsi libero dai condizionamenti della ragione nei sogni, solleva il velo sull’immaginario sessuale che “inconsciamente” ha sempre agito nei processi creativi. Di questo universo del profondo, Freud riconosce la donna come fulcro. Dirette sono le conseguenze nell’arte: ne fanno tesoro i movimenti artistici di inizio secolo che abbracciano questo inedito campo di esplorazione inaugurando un sistema prospettico inverso, una finestra aperta sull’universo di immagini che abita la psiche, di cui anche le donne diventano legittime interpreti.
Fino a quel momento, a tanta esposizione del corpo femminile nelle opere, aveva corrisposto, come abbiamo già ricordato, una quasi totale impossibilità delle donne ad esprimersi. Per secoli le donne-artiste sono state pochissime, sebbene singolarmente autrici di straordinarie testimonianze, non a caso spesso impegnate a dipingere soggetti femminili. Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana, Artemisia Gentileschi, Rosalba Carriera, per restare ad alcuni casi di pittrici italiane, sono memorabili eccezioni di donne che vinsero i pregiudizi. Un orgoglio particolare deve avere Bologna per aver dato i natali nel 1413 a Caterina de’ Vigri, squisita autrice di affreschi e miniature eseguiti nel corso della sua vita claustrale, divenuta poi santa e patrona dei pittori.


Il ritratto negato
Emancipazione è la parola chiave in nome della quale nel mondo occidentale le donne hanno lottato per sottrarsi a quel ruolo subordinato e convenzionale di cui la donna-musa era l’ideale maschile. Le conquiste di diritti ed uguaglianza sociale sono storia recente, anche se c’è ancora tanto da fare. Moderne migrazioni hanno trasformato le nostre città in realtà multietniche in cui entrano a contatto popoli con modelli sociali diversi. Per quanto riguarda i ruoli uomo-donna, la cui evoluzione come abbiamo ricordato passa anche attraverso la presenza (o l’assenza) dell’immagine femminile e i modi della sua rappresentazione, siamo dentro un coacervo di differenze. All’alba del 2010 ci sono donne che devono ancora veder riconosciuti diritti essenziali, tra cui quello di mostrare il proprio volto. Tuttavia le donne sono sempre più vincenti in tutti i campi, anche in quello dell’arte, uno dei più difficili da espugnare; le donne-artiste sono oggi numerose e di successo e spesso rivelano potenti tratti autoreferenziali, come le pioniere del passato. D’altra parte, nella società dei mass-media si evidenzia una sovraesposizione della rappresentazione del corpo femminile, attraverso canali di comunicazione e strategie d’immagine persino irrispettose, che strumentalizzano e mercificano la donna, eccessi che toccano anche ambiti creativi votati al ribaltamento di ogni convenzione e buon gusto. Questo accade nella babele di oggi e nei suoi stridenti contrasti, dove diversi mondi femminili si sfiorano. La complessità del contesto richiede al mondo dell’arte posizioni forti e libere per indurre riflessioni e tracciare nuove rotte. Poiché l’arte più preziosa e ammirevole è (ed è sempre stata) contro le convenzioni, le iconoclastie e gli sguardi negati.


80 modi di dire donna
Alla fine ormai del primo decennio del XXI secolo, possiamo voltarci indietro e guardare alla storia dell’arte italiana e internazionale con la consapevolezza che troveremo una persistenza dell’immagine femminile che attraversa e supera anche i periodi di minor fortuna del figurativo, anzi prende slancio e nuovo vigore nelle estetiche contemporanee. Parte da qui la nostra ricognizione attorno ad un nucleo di oltre ottanta opere di pittori e scultori dalla metà dell’Ottocento a oggi, in cui il rispetto e un atteggiamento “poetico” nei confronti della donna non vengono mai meno. La mostra ha un taglio storico per la presenza di opere di valore museale, e grazie ad alcuni autori più giovani e operanti arriva a gettare un ponte sulla realtà di oggi, dove si integrano finalmente anche le testimonianze delle donne-artiste. Poiché nell’arco temporale di riferimento il ruolo sociale della donna ha avuto prepotenti cambiamenti, la mostra può essere letta come un paradigma dei modi in cui gli artisti hanno reagito alla trasformazione del mondo femminile. In mancanza di uno studio sistematico e organico su questi aspetti, la nostra mostra si propone di stimolare confronti tra opere storiche e più recenti, come luogo in cui si manifestano delle differenze. Certo è che le donne hanno imposto una nuova femminilità attiva, assai più autonoma e competitiva in tutti i paesi democratici del mondo e ciò cambia la percezione del loro essere come soggetti che si autodeterminano in uno spazio sociale che si identifica ormai con quello maschile. E dunque come è cambiato il modo di rappresentare il concetto archetipico della figura femminile, sopravvivono le sue ataviche implicazioni nelle diverse strategie dell’apparire enfatizzate nella società dei mass-media? Esiste ancora la donna-musa? nella sempre più diffusa ambiguità dei generi sessuali quali sono le caratteristiche della attuale femminilità e come entra nelle realizzazioni degli artisti? Tutto ciò resta campo di dibattito e di ricerca aperto.
Come in tutte le indagini a carattere iconografico, è necessario non perdere di vista che, inoltrandoci nel ‘900, l’oggetto della raffigurazione può rivelarsi un pretesto. La vera identità dell’operazione artistica post-moderna e contemporanea, lungi dal replicare canoni e regole precostituite, si fonda sull’elaborazione di un progetto ambizioso e necessario, che solo i grandi artisti hanno la forza di imporre, in cui un percorso di conoscenza individuale si traduce in un linguaggio che diviene universale, portando l’esperienza del singolo alla collettività. Per molti autori qui rappresentati le scelte stilistiche sono un a-priori sostanziale e l’omaggio alla figura femminile avviene all’interno di una ricerca estetica fondamentale; sarà importante quindi sottolineare con quale incisività ogni artista entra nella sequenza del genere e con quale autorevolezza lo reinventa, avvicinandosi e più spesso allontanandosi anche radicalmente dai modelli del passato. Di tutto ciò si propone qui un paradigma, attorno a un argomento imprevedibilmente ancora scottante come la figura femminile.


Tra erotismo e lessico familiare
Cronologicamente la mostra si apre con una famosa opera in terracotta , “Voluptas”, datata 1874 del pittore e scultore bolognese Luigi Serra (1846-1888). Tra gli estremi in cui oscilla continuamente l’ispirazione che ruota attorno alla donna, questa scultura segna una delle opere più potentemente erotiche in mostra: la donna è qui ritratta in deliquio, in un piacere simile alla morte, con tratti descrittivi che nella calda materia modellata con sensibilità e furore dal giovane autore, quasi in gara con il tempo, rendono l’immagine coinvolgente, ben oltre gli standard del simbolismo cui il titolo rimanda; come già esclamava Francesco Sapori nella sua biografia del Serra “ non si può guardare questa figura senza provare un brivido dalla testa ai piedi”. All’estremo opposto della temperatura emotiva, troviamo l’effigie severa de “La moglie” di Luigi Bertelli (1832-1916), olio del 1887 che individua il tono serio della ritrattistica ottocentesca in cui si accampano con descrittiva intensità i tratti della persona cara, con tutto il peso della loro verità. A indicare un ulteriore modo squisitamente ottocentesco di definire l’immagine femminile, sono in mostra tre chine del pittore veneziano Giacomo Favretto (1849-1887), dove con garbo e immediatezza sono riprese figure da famosi quadri di maestri del ‘6 e del ‘700, risolti in un essenziale gioco di luci e ombre. Alessandro Scorzoni (1858-1933) traccia un ricordo del sorriso di “Stella” in un pastello datato 1889, dando vita ad una femminilità luminosa e solare, un’intuizione riuscita di un pittore che potremmo dire il nostro “impressionista”, che coglie la fanciulla in movimento, i denti scintillanti tra le labbra socchiuse, il taglio vivace, modernissimo. Due opere di Fabio Fabbi (1861-1946) riportano sapori d’oriente ispirati alle esperienze di viaggio in Egitto; in “Odalisca” del 1891 interpreta con grazia il motivo della danzatrice che gioca con le trasparenze dei veli, il corpo perfetto è definito nelle sue caratteristiche erotiche e immerso nell’atmosfera privata e un po’ voyeristica del bagno turco. Ne “I sette vizi capitali”, degli anni ’10-‘20, Fabbi si rivela epigono di una pittura che, sotto le spoglie del tema morale, contrabbanda l’esaltazione del godimento erotico: l’allegoria mette in scena tre figure femminili nei panni di superbia, lussuria e invidia, lasciando le altre personificazioni a meschine e umbratili figure maschili. Il mistero e la concupiscenza sono la vera anima di queste raffigurazioni di Fabbi in cui la donna è magnifico ornamento d’eleganza floreale. Varcando la soglia del 1900, si entra nel cuore delle variabili ad altissima tensione creativa che dettano alcune delle visioni più struggenti del secolo. Le opere degli anni Dieci e Venti sono espressione di una generazione di autori nati attorno agli anni ’80 del XIX secolo, a quelle date nel pieno della giovinezza, uniti nell’antiaccademismo e nella ricerca di nuove soluzioni estetiche, modulate sulle coeve esperienze internazionali. “La parete azzurra” del 1914 di Carlo Corsi (1879-1966) traduce con pennellate compendiarie in una festa di luce l’apparire della figura muliebre in abiti alla moda; da una borghesia squisita ed elegante che abita interni confortevoli provengono le protagoniste di Corsi, il cui sguardo indaga sul “fenomeno” donna cogliendolo in un’osmosi materica con l’aria, la luce, il colore, come emanazione e miraggio. Al tema della donna è legata gran parte della produzione di Alfredo Protti (1882-1949), di cui “La maschietta” del 1920 è capolavoro rivelativo della sensualità con cui il pittore si accosta al motivo, in un’ottica di splendore formale e carnalità. Il corpo della modella che si specchia, colto come da uno sguardo indiscreto, consente un gioco di maestria, una doppia fonte di piacere estetico che proviene dalla pelle di luce della fanciulla che in atteggiamento spontaneo si rimira. Le due rarissime carte di Amedeo Modigliani (1884-1920) provenienti da una collezione russa, segnano veramente il passaggio verso un’operazione estetica pura, in cui il soggetto sopporta deformazioni stilistiche e si trasforma in modulo innovativo con imprevedibili scarti percettivi. “La femme fatale” del 1915 reinventa totalmente i canoni della bellezza, la ricerca insistita di un modulo ovale ed ellissoidale scorre come una energia fluida nei tratti disegnati dell’ampio cappello, negli occhi fessurati, nelle gote e nel mento, per eccedere nella grande curva del naso, impostato di profilo a dare, se non grazia, carattere alla fisionomia. Questa scomposizione rimanda alle ricerche cubiste e agli stilemi desunti dall’arte africana e primitiva con cui Modigliani viene a contatto negli anni parigini e con cui si confronta in assoluta autonomia e originalità. Il “Portrait de femme” del 1918 riporta la figura ad uno schema frontale allungato, con la mandorla cieca degli occhi che è il modo tipico di Modì di alludere ad uno sguardo interiore. Degli anni Venti è anche “La ruffiana” bronzo di Medardo Rosso (1858-1928), testa di carattere esemplare della personalità unica di questo scultore , “impressionista” nel senso che la materia si offre ai riverberi della luce cercando impressioni coloristiche e di movimento. Garzia Fioresi (1888-1968) parla invece delle complessità della condizione femminile delle classi povere, evidente in quadri come “La montanara” del ’22 e “Le tre contadinelle” del ’25, in cui si osserva da un punto di vista sociale la realtà umana dei soggetti. In essi il movimento tende a risolvere le situazioni, spesso gravose e marginali; mai Fioresi rinuncia a cogliere una dignitosa bellezza cui la materia ricca della sua pittura dona un presagio di riscatto. Quando nel 1927 Virgilio Guidi (1891-1984) dipinge “Passeggiata” ha già esposto a due Biennali veneziane e ha partecipato nel 1926 alla mostra del “Novecento Italiano “ a Milano al Palazzo della Permanente; in quello stesso anno il pittore si sposa. Forse non è un caso che la sua attenzione colga il gesto delle due donne che concorrono diagonalmente a formare un triangolo che accoglie la figuretta di un bebè adagiato in una monumentale carrozzina. L’invenzione compositiva, memore di arcaismi giotteschi, si anima nei volumi delle figure come massa vibrante e prelude agli sviluppi più astratti della pittura del maestro, in cui sarà ricorrente l’uso di figure in diagonale a determinare l’ipotesi di una misura tutta umana di uno spazio indefinibile. “Figura” del ‘33 è un capolavoro, non solo per l’intensità con cui Guidi si accosta alla “verità” del volto della modella, ma per la delicatezza con cui già applica una semplificazione geometrica che tende ad un modulo ovale, sottolineato nettamente in luce e ombra; qui la forma è ancora resa in modo volumetrico, un registro figurativo che successivamente l’artista abbandonerà del tutto giungendo alla sua tipica sintesi. La visione angelicata della donna si rinnova con Giovanni Romagnoli (1893-1976), il suo quadro “Purificazione” del ’27 è un esempio evidente. Il ritorno ad una soavità così idealizzata non è però il vero intento dell’autore: nel delizioso “Adolescenza” del ’36 l’immagine pare suggerire la trepidante attesa in cui il pittore si pone (e pone anche noi) davanti al soggetto, certo di una rivelazione che deve compiersi, come atto di fede nella vita e nella forza della donna; così nella posa la modella-fanciulla col modesto vestitino già troppo corto aspetta impaziente il tempo che ha davanti a sé. Altro peso esistenziale respirano le figure di Mario Sironi (1885-1961) che partecipano della gravità in cui è attanagliato tutto l’universo sironiano e che rimanda senza tregua all’asprezza del quotidiano. In “Donna che si pettina”, quadro recentemente ricondotto agli anni Trenta, la figura sembra cercare di liberarsi dalla dura materia, con un gesto solleva la lunga chioma scura solcata dai nastri; Sironi dà a questa figura il massimo di leggiadria che gli è consentita, non rinunciando ad una impostazione monumentale, accentuata dalla visione da tergo, che valorizza la forza del nudo. La partecipazione affettuosa è caratteristica evidente nella “Figura” del ‘27 di Lea Colliva (1901-1975), ritratto intenso che esalta la condizione femminile più dolce e remissiva. Il primo Novecento è rappresentato da un raro “Nudo” del 1939 di Carlo Carrà (1881-1966) e da “Maternità” del ‘51, interessante anche per il ravvicinato confronto che si può fare, sul medesimo taglio iconografico, con un capolavoro di Bruno Saetti (1902-1984) “Madre felice” del ’41. Saetti adotta lo schema Madonna con Bambino, dimostrando insieme la verità umana delle Madonne antiche e la religiosità del legame di ogni mamma col proprio figlio, un vincolo sottolineato dallo sguardo che con tenerezza sigilla il legame. L’opera di Carrà si iscrive in quella fase dell’attività in cui l’anziano maestro tende all’introspezione applicandosi ai generi classici e trasfigurandoli in un proprio racchiuso ordine. La sua “Maternità” sottolinea una stanchezza dolente, madre e bambino di profilo si rispecchiano persino nella piega amara delle labbra e sembrano interrogarsi sul proprio destino.
Passando ad un grande dell’astrattismo, Lucio Fontana (1899-1968), si osserva un raro disegno degli anni ’40 ancora figurativo, in cui sono tratteggiati con segno nervoso e guizzante figure mitologiche femminili e maschili. Al movimento energetico di Fontana si contrappone alle stesse date il “Volto femminile” di Massimo Campigli (1895-1971) che traduce in etrusco la donna moderna facendo coincidere remote presenze alla percezione viva; nel grande olio “Figure” del ’57 le forme femminili si moltiplicano su piani diversi, in uno spazio architettonico a scale, che suggerisce un ritmo, forse un atelier di moda in cui le figure tutte ben definite e mutevoli, strette nei loro tipici bustini, replicano la cifra geometrica cara all’artista. Negli stessi anni Gino Severini (1883-1966) disegna con leggerezza appena memore delle sue caleidoscopiche frammentazioni cubiste, figure come “Contadinella” del ’40. Lo scultore e pittore Francesco Messina (1900-1995), cantore della grazia femminile, è ricordato con due opere: il dipinto la “Modella” in cui lo sguardo attonito della figura vince sull’esuberanza del costume tradizionale, e la grande statua in bronzo “Ballerina” dove, eliminati tutti gli orpelli altrove presenti, la fanciulla resta nuda, in posa greca di figura stante e rilassata, concentrata sul morbido e prominente ventre. Altre sculture rivelano ancora l’oscillazione dell’ispirazione tra sacro e profano in Giacomo Manzù (1908-1991), nel bassorilievo “Annunciazione” del ’31 e nel più tardo “Streeptease”, grande bronzo in cui gli ampi panneggi e la dolcezza del volto minuto interpretano il tema negando la rappresentazione del nudo, ma avvolgendo la figura in un paludamento che la protegge e nasconde come in un abbraccio. Altri maestri ancora segnano il percorso del pieno ‘900, con un allargarsi verso il panorama internazionale. Nell’inconfondibile rievocazione del mondo popolare bielorusso di Marc Chagall, la donna è figura poetica per eccellenza, sposa e innocente creatura amata, capace di librarsi in volo e trascinare l’uomo in una dimensione di sogno; ne ”Le visage vert”, olio degli anni ’70, tutto l’immaginario chagalliano è presente, il villaggio lontano immerso in un notturno e in primo piano la fanciulla di profilo, accompagnata dal candido animale, che introduce alla visione. Alcune opere di Nikolaj Karahan (1900-1970) ricordano con un diverso lessico figurativo la condizione della donna in Unione Sovietica, raccontandone il lavoro e il riposo in un’armonia idealizzata. Tornando agli artisti italiani, si incontrano la donna enigmatica di Felice Casorati (1883-1963), quella legata alla terra e ai miti primitivi di Mario Tozzi (1895-1979) , quella chiacchierata negli aneddoti piccanti di Mino Maccari (1898-1989), quella consumata nel grande contenitore di sogni che è la cartellonistica pubblicitaria e rapita in sindoni lacerate da Mimmo Rotella (1918-2006); e ancora le donne lavoratrici, umili e laboriose, in una Napoli raccontata dal vero di Alberto Chiancone (1904-1988) e la delicatezza dei ritratti crepuscolari di Norma Mascellani. Un discorso a parte merita la vocazione sociale che anima la scrittura espressionista di Aldo Borgonzoni (1913-2004), che ha dedicato alla donna lavoratrice, la mondina, la contadina, l’operaia, interi cicli cui si aggiungono le figure desunte dal mondo bucolico classico, in un’alternanza di ispirazione, l’una stringente amara e condivisa sul piano della lotta sociale, l’altra animata da una poetica lontananza. E si giunge al grande omaggio alla donna contemporanea di un maestro nella sua vecchiaia, Pompilio Mandelli (1912-2006). Nelle sue “Mannequin” l’artista osserva la teoria regolare e mutevole delle indossatrici, e passa questa suggestione visiva al vaglio di uno stile impegnato nel superamento dell’Ultimo Naturalismo; l’unico esito possibile è la trasformazione della visione in energia pura; in questa estrema metamorfosi restano forme secche e mobili, un tutt’uno con il vuoto attorno che pure vibra, a indicare un passaggio come di fata morgana, ogni descrizione ormai superflua tranne quell’andare, quel ritmo, di donna e di colore. E siamo agli autori che ci riportano all’attualità. Tra questi Concetto Pozzati (1935) rappresenta una radice pop italiana trasformatasi nei decenni in una onnivora rigenerazione di segni e figure; qui lo scarto con il genere figura femminile è però prepotente e piuttosto si avvalora nella più ampia distanza dal motivo naturalistico. Il titolo della serie “Biblioteca di segni” è rivelativo del suo progetto linguistico in cui “rapisce” le figure femminili di Klinger, Fontana, Modigliani, Grosz… per riportarle in un contesto avventuroso, in mezzo a segnali dinamici, alla ricerca di una identità rinnovata. Due pittori si confrontano all’interno dei canoni di una figurazione con caratteri visionari e spiazzanti: Gigino Falconi (1933) racconta in quadri complessi le sue protagoniste costruendo attorno a loro un mondo onirico, di cui esse sono regine e prede, con risvolti di un erotismo decadente. Luigi Pellanda (1964) usa un segno più secco e iperrealista, la tensione erotica dei nudi si raffredda sotto l’occhio indagatore che ne rivela i corpi, adagiati su letti come su bianchi altari. Due scultrici impongono la visione più contemporanea della femminilità e concludono idealmente il percorso: Mirella Guasti (1933) opera una deformazione verticale del corpo allontanandosi da qualsiasi stereotipo sia di sensualità che di purezza, riconducendo all’oggi le sua interpretazione delle jeunes filles, impegnate in attività ginniche o in deliziosi atteggiamenti comunicativi nel loro spazio vitale. La giovane Rabarama (1969) già accreditata esponente dell’arte italiana sul mercato internazionale riveste le sue figure di una superficie completamente tatuata, con disegni geometrici sempre diversi, imbrigliando i corpi in una rete di simboli, allusione alle mutazioni continue dell’apparire, sotto cui la vera pelle della donna si nasconde e insieme misteriosamente si rivela l’essenza.