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Il gesto
e lo spazio
Hans Hartung,
Sergio Romiti
ALLA
DIPAOLOARTE
Testo
pubblicato in Art Journal
mag.-giu.
2012
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SERGIO ROMITI, “Composizione”, 1952,
olio su carta |
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SERGIO ROMITI, “Composizione”,
1962, olio su
tela |
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HANS HARTUNG,
acrilico su carta, 1973 |
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Il cielo e una stanza
Opere storiche di Hartung e di Romiti. L’artista bolognese a fianco di uno dei
mostri sacri dell’Informale, un difficile confronto tra anime lontane.
di Daniela Bellotti
L’accostamento di Hans Hartung e Sergio Romiti è inusuale e coraggioso; dobbiamo
dare atto alla Di Paolo Arte di aver suggerito una possibile chiave di lettura e
di confronto: “Il gesto e lo spazio”, evocati dal titolo della mostra, sono
elementi fondamentali dell’arte astratta, in questi due artisti identificabili
al primo sguardo. Detto questo, Hartung fu un genio assoluto, un innovatore, tra
i primi a tracciare una via dell’Informale; il successo internazionale ottenuto
in vita prosegue nell’ammirazione incondizionata di oggi e nella continua
attenzione agli approfondimenti della sua opera. Tra le retrospettive, per il
rigore scientifico e la completezza, resta di capitale importanza la mostra del
2006 “In principio era il fulmine” della Triennale di Milano. Il nostro Romiti,
pur straordinario nella sua ricerca individualista, rimase isolato e in parte
incompreso persino nel contesto bolognese. La proposta della Di Paolo ha una sua
validità anche critica, nella misura in cui rinnova l’interesse per Romiti con
opere degli anni 1950 /’60 mettendole a fianco di un olio storico di Hartung del
1963, già esposto alla Galleria Civica di Torino nel 1966.
E’ evidente che i due artisti parlano lingue diverse. Il gesto di Hartung
fluisce dinamico ed essenziale: lo spazio, libero da servitù oggettuali, allude
con precisione quasi visionaria ad un universo cosmico, in cui si scatenano
forze trascendenti che l’artista catalizza nel suo gesto. Nelle altre opere di
Hartung in mostra si accampa il segno scuro, arcuato e tagliente dall’intreccio
sempre variato che è la formula grafica dell’artista. Di fronte a questa
essenzialità cristallina, c’è Romiti, con una sequenza di “Composizioni” intrise
di umori terrestri, impasti umorali su cui gravano nebbie e retaggi padani, da
cui il pittore non riesce, e forse non vuole, liberarsi. Si sente che l’artista
dialoga con alcune figure di riferimento a lui vicine, Morandi delle nature
morte, Mandelli dell’Ultimo Naturalismo… sono rovelli intellettuali che
connotano questa pittura e determinano gli argini del discorso e la sua
identità.
Due percorsi difficili da interpretare e capire fino in fondo. Un cenno alle
storie individuali può essere utile perché il nesso tra la vita e le opere fu in
entrambi inscindibile.
Hans Hartung, nato a Lipsia nel 1904, morto ad Antibes nel 1989, ebbe una vita
avventurosa; dopo gli studi al Bauhaus, iniziò la sua attività artistica nel
1922, ma sotto il nazismo, a causa delle persecuzioni nei confronti dell’arte
considerata degenerata, dovette lasciare la Germania e trovare rifugio in Spagna
e in Francia; si arruolò nella Legione Straniera e partecipò a diverse battaglie
fino al ’44 quando fu ferito così gravemente che gli fu amputata una gamba.
Nonostante la disabilità e le sofferenze patite, nel dopoguerra riprese a fare
pittura. La scelta astratta è da subito rigorosa; la drammaticità degli eventi
vissuti danno inizialmente al suo segno la ritmica delle deflagrazioni,
l’esperienza bellica si distilla in gesti rabbuiati. Col tempo le radici del
dolore lasciano più spazio all’espressione dell’armonia, lo spazio del quadro
diventa un grande territorio luminoso con zone di colori aurorali, su cui il
gesto dell’artista sempre si slancia d’impeto; è una spazialità che allude ad un
gesto creativo misterioso e universale. La sua arte fu coronata da un successo
mondiale, testimoniato dal premio Guggenheim nel 1956 e dal Gran premio per la
pittura alla Biennale di Venezia nel 1960. Ha dipinto fino gli ultimi istanti
della sua vita con strenua volontà, ormai indebolito e immobilizzato sulla
carrozzella.
Sergio Romiti, nato a Bologna nel 1928, fu un solitario della ricerca artistica,
non lasciò mai la sua città, dove si tolse la vita il 12 marzo del 2000.
Nonostante questa vita completamente assorbita in un ambiente culturale locale,
egli era assolutamente dentro il suo tempo, dentro il dibattito culturale
italiano e ben consapevole dell’arte internazionale. La sua pittura si sviluppò
in fasi progressive, di grande rigore, determinando una sorta di una esperienza
estrema, sia sul piano artistico che umano. La sua arte fu apprezzata da poeti e
intellettuali, come Francesco Arcangeli e Eugenio Montale, che ammirarono in lui
la profondità del sentire, di cui la pittura si fa scandaglio, per registrare i
moti esacerbati dell’animo. Alla Biennale di Venezia del 1960, lo stesso anno in
cui Hartung riceve il Gran Premio, Romiti ottiene una sala personale.
E dunque, il gesto e lo spazio. Con significati molto diversi.
Verso la metà degli anni sessanta, Hartung sviluppava i suoi cicli formidabili,
scalando come un titano i vertici di una visione cosmica, traendone un’energia
vitale di grande potenza, che i suoi quadri comunicano con lucida perfezione.
Negli stessi anni Romiti raggiungeva il grado zero della sua pittura:
schiacciato quasi dall’impossibilità di proseguire oltre, di fronte all’erosione
finale dell’oggetto nello spazio, teorizzava l’abbandono della pittura. Un
abbandono che non fu in quel momento definitivo, poiché egli successivamente
riprese i pennelli per nuove serie di composizioni, ormai nettamente in
opposizione all’Informale. Lo spazio per lui resta un elemento con cui
ingaggiare una lotta, cui strappare brandelli di senso, con un gesto pittorico
largo, strenuamente energico anch’esso, (poiché di lotta si tratta) un gesto che
crea luci e ombre, grigi e neri, tessendo e ritessendo trame; ogni residuo,
delicatamente richiamato sull’abisso della superficie del quadro, è assediato
dall’indistinto. Le pareti circoscrivono il suo dramma, l’enigma della nullità
dell’azione umana.
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